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Immagine del redattoreMichele Tarzia

Un dialogo di silenzio con tempo, amore e fede in Tarkovskij

La vera arte è basata sulla vera immagine e non è soggetta all’interpretazione

Stalker, 1979, Andrej Tarkovskij

Luglio del 2006.

L'aula si presentava piccola e con una decina di sedie rosse pronte ad accoglierci. Eravamo circa dieci persone. Tutti i miei colleghi all'epoca, di un corso che stava per iniziare presso l'Accademia di Belle Arti a Reggio Calabria. Aspettavamo che arrivasse la docente per cominciare la prima lezione di Regia. Durante la sua attesa pensavo a come potesse essere, ne sentivo parlare spesso ma non l'avevo mai conosciuta. Ricordo che tutti ne parlavano bene per via del fatto che citava spesso una figura del teatro sperimentale degli anni '70, Pina Bausch, e del fatto di aver conosciuto autori come Tadeusz Kantor, Jerzy Grotowski, Eugenio Barba e perfino il Living Theater. Nel frattempo lei arrivò e tutti restammo in silenzio. Quel silenzio assordante che ti fa percepire le singole particelle di tensione, di paura ed emozione. Tolse un dvd dalla borsa, ci salutò velocemente e inserì il disco nel lettore.

Dalle prime immagini che vidi capii subito che tutto il cinema guardato fino al quel momento non era altro che futile e pressoché insignificante. La forza espressiva delle immagini in movimento di Andrej Tarkovskij mi lasciarono immobile sulla sedia. Piano piano quel tempo impresso sulla pellicola ci faceva scoprire un dialogo.

Poi il tempo rimase impresso sul piano sequenza attraverso le colonne della chiesa dove, in lontananza, si scorgeva la Madonna del Parto (trasposizione del dipinto di Piero della Francesca, databile al 1455-1465 circa). E lì, dopo qualche minuto dall'inizio del film, si scorge una donna con le braccia tese mentre apre le vesti della santa per far uscire degli uccelli, e là che il mio corpo rischiò di avere una sublimazione.

Quel volo di uccelli rappresentò per me la perfetta sintesi di come l'inquadratura cinematografica possa diventare vera porzione di tempo reale, scandita da attimi di vita, percepibili come presenza (andando oltre l'ovvia finzione narrativa).

Durante una conferenza tenuta alla St. James Church di Londra nel luglio del 1984, lo stesso

Tarkovskij definisce la sua idea di "immagine": « La vera arte è basata sulla vera immagine e non è soggetta all’interpretazione ».


Poi arrivò il titolo: Nostalghia un film di Andreij Tarkovskij e si, fu un colpo al cuore.

Una visione mistica e sensuale allo stesso tempo. Mi innamorai di questo regista russo.

Non lo dimenticai più.

Nostalghia, 1983, Andrej Tarkovskij

Tarkovskij “scolpisce” il tempo attraverso l'inquadratura, rendendo tutto materia sensibile. Quel tempo indefinito, plastico e malleabile che si respira e si vive guardando le sue opere. Ci si immerge in un mondo fantasmatico, parafrasando Slavoj Žižek che così definisce il mondo che gira intorno ai paesaggi e ai personaggi del regista russo.

Come spesso capita con alcuni piani sequenza del film si ha la sensazione di essere parte della pellicola.

Tecnicamente parlando, la visione del film è in 'soggettiva' e quindi lo spettatore potrebbe essere in qualche modo partecipe alla narrazione del film stesso. Il piano sequenza quindi, assume una forza espressiva non indifferente e, non essendoci stacchi sull'immagine, la visione allude direttamente alla realtà.

Tarkovskij gira molte scene utilizzando questa tecnica e la utilizza come se fosse un'estrazione del tempo reale vissuto durante il set. In Nostalghia realizza il piano sequenza più lungo della sua opera filmica, dove il protagonista con una candela accesa in mano cammina con estrema lentezza attraverso la piscina malandata e vuota, segno questo, di un'attenzione particolare, ma oserei dire rispetto anche, nei confronti della narrazione e soprattutto del cinema.

Il tempo è una costante molto variabile nella cinematografia, dove la concezione di attesa, riflessione, verità e documento assumono un valore molto importante, dichiarando così, un modo di fare cinema che si distacca dal cinema “classico”, mainstream per intenderci. Tarkovskij dà al tempo un'anima, lo rende partecipe della costruzione del film e lo fa interagire con i protagonisti. Lascia che tra di loro si instauri un rapporto, un'empatia o come piace definirlo a me, un dialogo di silenzio.


L'elemento che più rispecchia la sua concezione di tempo nelle sue opere è sicuramente l'acqua. L'acqua assume, per Tarkovskij, una valenza polisemica.

In qualche maniera l’acqua diviene simbolo del tempo stesso e dell’esperienza umana nel tempo. «Io ritengo che il mio compito sia quello di creare il mio personale fluire del tempo, trasmettere nell’inquadratura la mia percezione del suo movimento, della sua corsa.

[…] Una scultura del tempo, ecco che cos’è l’immagine cinematografica!»


Andrej Rublëv, 1966, Andrej Tarkovskij

[...perché è un peccato crocifiggere un uomo così

com'è peccato mostrarsi nuda.

Perchè peccato? Questa è la notte che noi abbiamo consacrato all'amore. E' un peccato l'amore?

Com'è peccato legare un uomo alla croce.

Se è così chiama i tuoi monaci ad aiutarti e farci imporre la vostra religione].


Il dialogo è tratto da una scena di Andrej Rublëv, film del 1966 di Tarkovskij, che rappresenta il passaggio dal tempo all'amore. Ed è proprio l'amore che appartiene al regista russo fin da questo suo secondo lungometraggio.

Eppure il desiderio di amore non è essenza di coppia, di intimità sentimentale. Altro, invece, è il pensiero che il regista vuole attribuire. Un pensiero altruistico e sull'uomo. Qui potrebbe inserirsi molto bene la riflessione di Sant'Agostino quando afferma << Pondus meum amor meus >>, il mio peso il mio amore, rafforzando ancora il suo pensiero che “colui che sa non è saggio, ma saggio è colui che ama”.

Per il regista russo, questo significa amore. La concezione che l'uomo vale, pesa e vive in base alla sua capacità di amare.

D'altro canto cosa siamo noi, esseri umani, senza il sentimento dell'amore? Senza la capacità di amare, condividere delle emozioni con altre persone? Saremmo senz'anima, o peggio ancora, degli uomini-robot, castrati dalle virtù più affascinanti della vita.


<< Forse in effetti, la missione di Kelvin su Solaris (1972) ha un solo scopo, dimostrare che l'amore per il prossimo è indispensabile per ogni forma di vita. Un uomo incapace di amare non è più un uomo. Lo scopo del 'solarismo' è dimostrare che l'umanità dev'essere amore>>.

Se così non fosse, se la capacità di amare svanisse, allora il cinema stesso potrebbe diventare “effimero”. Privo di ogni contenuto, di ogni forma. Anche laddove le immagini in movimento si formano con la sola idea di documento, o con il solo scopo di intrattenere piuttosto che concettualizzare degli eventi o dei pensieri, si andrebbe a perdere la soggettività dell'io, dell’esperienza sensoriale che in fondo fa reagire i nostri istinti anche davanti a opere di contenuto cruento. In poche parole, perderemmo le facoltà di pensiero e di intelletto, e avvieremmo una “destituzione soggettiva”, per dirla come Lacan, dove il nostro attaccamento alla realtà ci indurrebbe ad essere de-realizzati e la nostra visione quotidiana verrebbe percepita come un sogno, cosicché non saremo più in grado di formulare una nostra propria riflessione personale.


<< Solo con la preghiera l'anima può lanciare lo sguardo che l'occhio non vede>> .

La spiritualità, secondo Tarkovskij, è similitudine di fede religiosa. Un avvicinamento che inizia tra le immagini di L'infanzia di Ivan (1962) e finisce con Sacrificio (1986), il suo ultimo film. Diventa questo, un percorso fatto di fede e poesia, scandito molte volte e come in alcune sue pellicole, dagli Haikù, che il padre Arseny scrisse.

Si percepisce nei suoi film un senso forte di spiritualità, intesa come forza dell'anima, come motore propulsore di una innata attenzione verso la vita, verso il genere umano.

Ogni suo movimento di macchina, ogni primo piano che riprende, ogni musica che entra nelle scene diventa un'esperienza sensoriale, frutto di una regia attenta e minuziosa, oltre che rispettosa, dei dettagli. Di tutte quelle componenti che rendono i film del regista russo come una vocazione alla vita, alla libertà di espressione dell'io - la libera espressione dell'essere.

Ogni sua attenzione nel riprendere il paesaggio piuttosto che i personaggi, diventa un'impercettibile penetrazione dell'anima dello spettatore. Inconsciamente siamo “attaccati” dalla potenza visiva delle sue immagini.

Per esempio, tale potenza visiva si nota nella scena in cui Sergey in Andrej Rublëv, viene attaccato alle spalle da una freccia lanciata da uno dei barbari che precedentemente avevano conquistato l'abbazia, mentre cade esangue in un rivolo d'acqua. Il ruscello sembra essere la giusta metafora di una madre pronta a ricevere tra le sue “acque” questo figlio morto per un Dio inesistente, al contrario del regista che invece legittima la sua presenza con la macchina da presa, donandoci quest'esperienza mistica di coinvolgimento sensoriale, semplicemente con l'ausilio di un'inquadratura, lenta e in attesa di una morte imminente, mentre Sergey esala gli ultimi respiri.

Quelle immagini che narrano e coinvolgono attraverso una forza vitale data da un'esperienza mistica e morale.

<< [...] dal senso e dalla vocazione, del destino e non come condanna, ma come accettazione di sé >>.

Solaris, 1972, Andrej Tarkovskij

Tempo, amore e fede sono quindi gli elementi che caratterizzano le opere di Andrej Tarkovskij.

Immenso poeta del cinema russo, dotato di una sensibilità che scolpisce il suo animo rendendolo un pittore di immagini in movimento; e la pittura è stata parte del suo stesso percorso di vita.

Il suo cinema è stato per tanti, come per me, un modo di pensare, di fare, di agire, di dedicare al tempo e alla sua potenza spirituale, tutta la vita.



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